Nel post precedente avevo tentato di fare una riflessione sui pericolo di raccontare una sola storia di un popolo e ora, vorrei fare lo stesso con una persona: Phil Collins, appunto. Ci sono un sacco di cose che non sapevo su di lui. Però, prima di tutto , visto che in fin dei conti sto tenendo questo blog più per me che per altri, racconterò un antefatto personale e poi andrò ad esaminare il libro vero e proprio.
Come lo stesso Collins, afferma nel libro, “negli anni 80 è difficile sfuggirmi” e, in realtà, non credo neanche di averci provato. In quegli anni ero solo una preadolescente e, successivamente, una adolescente che cercava di sfuggire da una timidezza cronica (che mi porto dietro ancora ora) e da un ambiente come quello scolastico che lasciava molto a desiderare soprattutto per le persone come me.
Ho trovato una via di fuga nella musica e, complice un regalo fatto – a Natale? al compleanno? Non ricordo con precisione – di una radio vecchio stile mi porta ad ascoltare veramente di tutto. Niente distinzioni. Quello che lo speaker decideva di passare alla radio, io lo ascoltavo. E ovviamente era inevitabile imbattersi in Phil Collins. Ed è successo molto prima di arrivare a Peter Gabriel tramite Don’t give up e Kate Bush. Prima c’è stato Invisible Touch dei Genesis. So già che qualcuno, leggendo queste parole, esclamerà sicuramente: scusa conoscevi i Genesis e non Gabriel che è stato il suo cantante? Ebbene si. Non si era certo ai tempi in cui internet era diffuso come ora e le informazioni si trovavano su Google. So che la cosa può suonare strana a chi non c’era all’epoca ma era così che funzionava: dovevi pregare di avere un fratello o una sorella appassionata di musica, con uno stereo e che ti introduceva a certi dischi che aveva comprato per se. Ripensandoci con il senno di poi i brani che amavo di più erano quelli più “complessi”: Last Domino e The Brazilian. Segno che molto probabilmente sarei arrivata comunque ad amare Peter Gabriel.
Ok, sto tergiversando, torniamo a bomba.
E la questione della storia singola? Ci arrivo.
Negli anni 80, e per molti anni successivi, ho avuto una visione parziale di Phil Collins. Per esempio sapevo che era autodidatta ma non sapevo che, per questo, si sentiva costantemente insicuro. Soprattutto di fronte agli altri membri del gruppo. Non ero a conoscenza del rapporto non propriamente buono ma neanche cattivo con il padre e nemmeno che avesse sviluppato una dipendenza da alcool che l’ha portato quasi alla morte. Sapevo che avesse notevoli problemi alla spina dorsale, una conseguenza della vita trascorsa quasi interamente alla batteria ma non che fosse stato operato. E non si salva nemmeno il suo doppio intervento al Live Aid. A me all’epoca era sembrata come qualcosa di assolutamente speciale. In realtà non è andata proprio così.
E, considerazione personale, prendetela come volete: dubito che si avrà mai un’opera del genere da Peter Gabriel. Un po’ per questioni di tempi ma anche di carattere, credo.
Non so come chiudere questa recensione atipica. Well se siete appassionati di musica almeno come lo sono io e, soprattutto, se amate sapere come vengono fuori certe canzoni, cosa c’è dietro e chi è veramente l’autore… questo libro parla di Phil Collins. Nel bene e nel male.
E il titolo non è per niente una battuta o uno scherzo. Anzi.