Lost in translation

Sto cercando di mettermi in pari con tutti i film che ho e che devo vedere. Ieri sera è stata la volta di Lost in translation, film di Sofia Coppola. La trama è questa: “Due americani a Tokyo. Lui è Bob Harris, una star del cinema giunta in Giappone per girare uno spot pubblicitario per una marca di whisky. Lei è Charlotte, a Tokyo per accompagnare il marito fotografo. Lui è sposato da venticinque anni e ha due bambini. Lei si è appena laureata e sposata. Inizialmente hanno in comune l’hotel e l’insonnia. Per questo si incontrano al bar dell’albergo: diventano amici, girano Tokio di notte, si divertono come matti, riscoprono la gioia di vivere.” Non è solo una questione di linguaggio, qualcosa che si smarrisce nella traduzione tra un idioma all’altro è anche nella comunicazione, nei contatti tra gli esseri umani. Sei avvolto, immerso nella folla eppure questa non ti sfiora, non riesce ad arrivarti. C’è una notevole differenza tra la cerimoniosità degli addetti dell’albergo fatta di regali, di biglietti da visita, di messaggi arrivati via fax, di sguardi sfuggenti e mai diretti e l’umanità viva e pulsante e anche un pò superficiale rappresentata dagli amici di Charlotte. C’è un disperdersi tra gli affetti nelle conversazioni telefoniche tra Bob e sua moglie. Particolarmente significativa una frase di Charlotte: “Sai sono stata in un tempio buddhista. C’erano tutti questi monaci che cantavano. Io li guardavo e non ho provato nulla”. Fotografia fantastica, ringrazio Sofia Coppola per avermi portato nell’angolo di Giappone che amerei tanto vedere se solo potessi. E darei tutti i miei soldi per sapere che cosa Bill dice a Charlotte nell’ultima scena. Qualcuno lo sa? Ma in fine non importa. Quello che conta è aver visto un’opera molto pregevole dal punto di vista estetico ma che, emotivamente, mi ha lasciato fredda dentro.