Fragile

 


Si ringrazia Artfinale per la splendida immagine.

Si avvisa i gentili ospiti della casa che parlerò di materiale scomodo. Proprio così se siete ipersensibili non vi ci dovete nemmeno avvicinare a questo disco. Di questo genio del male vi ho già parlato più volte ma non di questo disco. E’ un disco fragile ma non per questo privo di aggressività. Trent Reznor ha sempre avuto una caratteristica che me l’ha fatto amare: è capace di prenderti l’anima, ridurtela a brandelli e stare li a fissarti sorridente mentre raccogli i cocci. The fragile non fa eccezione: è un disco disturbato e disturbante, una vera lametta a tagliarti in due e esporre a nudo le miserie e l’immensa fragilità dell’animo umano. E’ un disco diviso in due parti chiamato, secondo me non a caso, “left” e “right”. Come il cervello. E’ il disco più ambizioso e personale di Trent Reznor. C’è la sfiducia verso il mondo, il pessimismo eppure l’amore può essere una soluzione (We’re in this together e la toccante The fragile) ma c’è come una patina oscura che permea tutta l’opera. E’ come una perenne cortina che non riesce a far trapassare del tutto la luce. Una lotta interiore ed esteriore: “Just like you immagined”…è come avevi immaginato, è anche peggio.”Even deeper” inizia con un suono pericolosamente cavernoso come se provenisse dagli abissi più devastanti e se ti trovi li non puoi sentire nulla, non ti arriva nulla (“And I wish I felt something”), quando pensi che sia tutto finito l’orrore e la disperazione si insinuano dentro di te ancora più in profondità. Vuoi provare ad aiutarmi ad andare avanti? E’ la silente preghiera alla fine del pezzo. Si continua, Reznor ci lascia scampo, “baby’s got a problem”… ma tenta di nasconderlo. Però non si può non è possibile. No you don’t è quanto di più aggressivo e violento ci possa essere: una vera mazzata per l’anima e le orecchie. La mer. Come descrivervela? E’ un canto della sirena, vi ammalia, sempre rilassarvi eppure c’è tensione. E’ come il suono del carillion nei film dell’orrore. Pensate sia qualcosa di innocente e invece…arriva la botta. Arriva The great below. Questa la dovete sentire. E’ semplicemente meravigliosa. E’ il canto di un’anima disperata. Monumentale come canta “And I descend from grace/in house of undertow/I will take my place in the great below”(discendo dalla grazia/nella casa della risacca/e prenderò il mio posto nel grande abisso). Niente tregua, siamo ancora in una guerra con l’anima e i sentimenti. Si ricomincia con The Way Out Is Through, quasi come dire: proviamo a uscire dal grande abisso. E’ un’illusione, solo questo, e ce lo conferma nel brano successivo con incedere scanzonato eppure il testo recita: “Try to save myself but myself keep slipping away”. Ci provo a salvarmi ma c’è qualcosa che mi sguscia dalle mani. E provi anche a cercare l’aiuto delle persone ma dove diavolo siete finiti? “Where is everybody?”. Perchè scappate quando ho più bisogno di voi? E se The Mark Has Been Made è un altro ottimo esempio di incrocio tra strumenti classici e campionamenti aggressivi e rabbiosi, chiuso alla fine dalla voce spezzata di Trent che pronuncia poche e arcane parole (“I’m getting closer, I’m getting closer, I’m getting closer all the time“), Please è un pezzo di psicotica e paranoica elettronica derivante in linea diretta da Pretty Hate Machine. E si arriva a “Starfuckers inc”: una tagliente tirata ironica e autoironica sullo star system in generale (nel video tra le varie statuette di personaggi famosi c’è anche quella di Reznor stesso) e su come alcuni personaggi mirano solo ad arricchirsi prendendo in giro chi li segue e li ammira. Complication è un altro pezzo elettronico strumentale, che introduce abbastanza bene I’m Looking Forward to Joining You, Finally, costruita su una batteria dai suoni estremamente originali e avvolta da una tristezza malinconica, le cui parole fanno pensare al fallimento di una persona cara a cui l’autore sente di potersi ricongiungere. Con The big come down si continua la strada della sperimentazione sonora tra furiosi elementi industrial come la voce rabbiosa e i synth graffianti e campionamenti classici di strumenti a corda suonati in maniera psicotica. Ancora una volta l’interpretazione di Reznor ci restituisce tutto il patimento nella ricerca di una pace interiore che sembra non arrivare mai. Lampante in questo senso la martellante Underneath It All. Puoi tentare qualsiasi cosa ma i demoni rimangono al loro posto dove li avevi lasciati. Sembra essere questo il significato profondo della frase “All I do, I can still feel you” ripetuta in maniera ossessiva. Ce l’abbiamo fatta, siamo arrivati alla fine di questa sorta di percorso analitico nella mente di Trent Reznor e il risultato non è per niente rassicurante: Ripe (with decay) costruita ancora attorno a campionamenti chitarristici distorti digitalmente, la traccia è avvolta da un cupo alone di tastiere e suoni ambient in cui fanno capolino note suonate al basso e al pianoforte, con un crescendo interrotto e poi ripreso, in cui si innestano anche campionamenti vocali di Trent stesso. Se alla fine di questo disco pensate che l’autore abbia trovato una sua serenità interiore siete davvero fuori strada…
P.S. Notazione personale. Ogni volta che ascolto questo disco vengo assalita da pensieri molto “caldi”. Cercate di capire da soli che cosa intendo…

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