Fino alla fine del mondo

Fare la recensione di un film come Fino alla fine del mondo di Wenders non è una cosa semplice. Fondamentalmente si tratta di un film diviso in due parti. Abbiamo una voce narrante che presto capiremo si tratta di Eugene Fizpatrick uno scrittore in procinto di scrivere una grande opera senza mai riuscirci davvero. E abbiamo Claire Tourneur interpretata dalla splendida Solveig Dommartin una donna fantastica, inquieta ma decisamente profonda. Una donna capace di cambiare la vita di tutti quelli che la incontrano. Il film è ambientato in un futuribile 1999, lo era almeno in prospettiva rispetto all’anno di creazione. Un satellite indiano è impazzito e temono che possa cadere ovunque. Wenders decide di raccontare gli esseri umani in fuga e ad essere più precisi, la fuga di Claire, donna perennemente alla ricerca di qualcosa. Una volta attraversata il confine tra l’Italia e la Francia la donna si imbatte in un ingorgo creato da persone che stanno scappando. Decide così di scegliere una strada laterale non battuta dai sistemi di mappatura computerizzata. Ed è così che incontra dapprima due rapinatori che le offrono di trasportare il denaro in cambio di una percentuale poi si imbatte di Trevor McPhee interpretato da William Hurt. Da qui comincia davvero il viaggio. Lisbona, Parigi, Berlino, Tokio, la Russia… qui Claire scopre che Trevor in realtà è Sam Farber, scienziato accusato da un’industria di aver rubato una tecnologia che lui e suo padre avevano inventato. Si tratta di un dispositivo in grado di catturare le immagini e di processarle in modo da dare la possibilità ai ciechi di vedere. L’uso di quella tecnologia ha una conseguenza: Sam quasi rischia di perdere totalmente la vista e grazie a Claire capitano per caso in una locanda giapponese dove il proprietario è anche appassionato di medicina. Quest’uomo attraverso le sue erbe riesce a guarire l’uomo. Pian piano ci avviciniamo alla seconda parte, il ritmo rallenta e il film si trasforma. La narrazione muta i suoi toni da vicenda tipica noir, tutta legata all’indagine e all’inseguimento di Claire, comincia pian piano a stemperarsi a diventare più intimista. Complice anche l’arrivo in Australia dei protagonisti e l’abbattimento del satellite che causa l’arresto di tutti i dispositivi elettronici. Tutto si ferma. Macchine, aerei, persino il computer di Eugene che conteneva la storia che disperatamente stava tentando di scrivere.

Sam e Claire arrivano al villaggio aborigeno dove i genitori dell’uomo si erano rifugiati. Il progetto era stato creato dal padre di Sam, Henry Farber interpretato da un intenso Max Von Sydow, per ridare la vista alla madre cieca dall’eta di otto anni. Subito ci troviamo di fronte a una famiglia divisa con una lotta impari tra un padre troppo votato al suo progetto e un figlio che sente di dover dimostrare qualcosa al padre. Claire si trova tra questi due fuochi, decidendo di aiutarlo.
Ancora una volta Wenders si pone degli interrogativi importanti. Fin dove ci si può spingere in nome della scienza e della tecnologia? Dove è il limite quando viene toccata l’essenza stessa della mente umana ossia la nostra attività onirica? Il regista non ha paura della tecnologia in se, ha paura della possibilità che questa ci renda meno umana. Questa paura la vediamo ritratta nella dipendenza di Claire, Sam e Henry verso i sogni. Se non è dato sapere come riuscirà a salvarsi Henry, ammesso che si sia salvato, Claire verrà aiutata dalla parola scritta da Eugene. Da quel romanzo a lungo inseguito e finalmente trovato, un romanzo scritto con una semplice macchina da scrivere vecchio stile. Per Sam invece ci vorrà l’antica sapienza dei suoi fratelli arborigeni che si prenderanno cura di lui, dormendogli accanto e prendendo i suoi sogni.

Il finale è dolce amaro e lascia spazio alla speranza per i nostri protagonisti e per il mondo intero.
Ho rivisto questo film per l’ennesima volta ieri sera e avevo gli occhi lucidi già all’inizio della sigla dove vediamo il mondo dall’alto, la voce di Eugene che racconta e i canti dei piccoli pigmei. Ancora una volta sono rimasta incantata dal viaggio reale, psicologico e musicale del film.
Wenders oltre che un regista visionario è uno molto attento alla musica e la colonna sonora ha raccolto i nomi più prestigiosi del mondo musicale, nomi come Rem, Depeche Mode, Peter Gabriel, U2, Lou Reed, Talking Heads solo per citarne alcuni.
Ammetto candidamente che avevo paura mi deludesse. Non sempre continui ad amare per sempre opere che hai amato così tanto in passato. Tutto può cambiare. Fortunatamente non è stato così per questo film. Ha ancora una presa fortissima su di me: il viaggio per il mondo, l’inquietudine di Claire, i sogni, gli interrogativi che Wenders si pone e la bellezza e la poesia con cui li racconta.. Tutto questo hanno ancora il potere di catturarmi e di commuovermi nel profondo.

2 Risposte a “Fino alla fine del mondo”

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.